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23 aprile 2012

La scuola: passato, presente e futuro in un mondo che cambia

di Mila Spicola, L’Unità del 19/04/2012

Non ho mai insegnato nulla ai miei studenti; ho solo cercato di metterli nelle condizioni migliori per imparare (Albert Einstein)

La frase di Albert Einstein riassume il contenuto di questo articolo.
I ragazzi oggi nelle scuole italiane sono messi nelle condizioni peggiori di sempre per
imparare.
Parleremo di “ambienti didattici”. Reali, gli edifici scolastici, e virtuali, cioè la
didattica. Poiché la didattica è, di fatto, un mondo virtuale.
Se c’è un luogo in cui sarebbe meglio che i nostri figli non entrassero sono le aule”. Così concludeva nel settembre scorso il IX Rapporto “Sicurezza, qualità e comfort degli
edifici scolastici”, presentato a Roma da Cittadinanzattiva. Ultimo tra i tanti che hanno
fotografato negli ultimi anni lo stato reale degli edifici scolastici come metafora dello stato ideale in cui versa la scuola in Italia: uno sfascio. Malmesse, degradate, e negli anni sempre più sovraffollate, le aule scolastiche sono da bocciare senza appello.
Ai dati allarmanti si aggiunge l’aumento del numero di studenti per aula che non fa che
aggravare la situazione. Dal Rapporto emerge che le classi con più di 30 alunni sono
21 su un totale di 1234, ossia l’1,7%.
Da quanto risulta oltre il 50% dei 42 mila edifici, in cui vivono milioni di studenti e di
operatori scolastici non sarebbe a norma, 10 mila di essi dovrebbero essere abbattuti e
circa 13 mila sono ufficialmente da ristrutturare e in 2.400 casi si riscontra addirittura la
presenza di amianto.
Vi avevamo avvertito: sono dati da paese in guerra.
La situazione più grave la registra la Sicilia, regione nella quale ai mali di cui sopra si somma un fenomeno particolare: una buona percentuale degli edifici scolastici è rappresentata da locali in affitto. Spesso non sono ambienti nati per essere scuole, si tratta di appartamenti, piani terra di palazzi, magazzini, scantinati, dove si “tenta” di far scuola. In questi casi manutenzione ordinaria e straordinaria sono ancora più latitanti per il balletto di responsabilità che si instaura tra proprietari e enti locali responsabili.
Chi ne paga gli effetti sono i ragazzi.
Il rapporto sull’infanzia elaborato da Save the Children nel 2011 rivela che in una città
come Palermo 44 bambini su 100 vivono sotto la soglia di povertà, un dato che
corrisponde al dato della dispersione scolastica (circa il 30% il più alto in Italia). Sicuramente, in contesti degradati, avere di fronte scuole “non scuole” fatiscenti,
insicure, e, diciamolo, brutte, non fornisce a ragazzi, già privi di motivazione allo studio,
grande desiderio di rimanere a scuola.
Cosa fare? Agire subito. Anche se lo si ripete da anni.
Aggiornare e completare il quadro dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica.
Senza una completa e aggiornata mappatura dello stato degli edifici scolastici italiani, è impossibile passare dall’emergenza ad una vera programmazione degli interventi. E poi investire. Servono risorse per recuperare e adeguare il patrimonio edilizio esistente.
Ma anche costruire, perché no? Scuole nuove, sicure e belle.
Edifici costruiti con parametri energetici, bioclimatici, ecosostenibili ma anche con criteri didattici innovativi, in cui i ragazzi e i docenti vivano “come a casa”, anzi,meglio che a casa, in certi contesti.
Va rimesso mano ad un regolamento attuativo della legge 81/08, che indichi con chiarezza, competenze, obblighi, funzioni e responsabilità dei diversi soggetti coinvolti in materia di sicurezza scolastica; inserire l’obbligo, per l’ente/soggetto proprietario, di aggiornare in maniera costante i dati relativi alle condizioni strutturali e non degli edifici scolastici; omologare gli studenti ai lavoratori non soltanto quando si fanno ”uso di laboratori, attrezzature di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici ivi comprese le apparecchiature fornite di video terminali”, al fine di garantirne adeguata tutela nel caso di incidenti ascuola.
Aggiornata la mappatura sarà possibile definire l’effettiva entità dei finanziamenti
necessari per l’edilizia scolastica ed occorre dare organicità e stabilità nel tempo ai
finanziamenti stessi attraverso piani pluriennali, non una tantum, basati su fondi ordinari
del bilancio dello Stato, non solo sui fondi straordinari come sono i fondi FAS o i fondi
europei e che comunque il passato governo non è riuscito a mettere in campo (circa 420
milioni di euro dei Fondi FAS, circa 220 milioni di euro dei Fondi strutturali Europei).
Il ministro Profumo ha manifestato in tal senso un interesse e una volontà precisi, ma
ancora non riusciamo a capire cosa e quanto si potrà fare. Di concerto con il Ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca ha destinato una buona parte dei fondi strutturali
europei alle regioni “obiettivo convergenza”, cioè le regioni del Sud, proprio all’edilizia
scolastica. Si tratta però, rispetto ai bisogni e alle emergenze illustrate sopra, di briciole,
questo va detto e dobbiamo esserne consapevoli, prima di gioirne.
La nostra perplessità è: nel bilancio dello Stato non c’è nessuna previsione di spesa in tal senso?
Abbiamo accennato all’innovazione fisica degli ambienti scolastici considerando gli edifici,
ma c’è un altro tipo di innovazione che sta iniziando a investire la scuola ed è
quella tecnologico-digitale.

Cercherò di affrontare l’argomento da una prospettiva diversa, che non si concentri solo
sui nuovi strumenti tecnologici esistenti e che iniziano a farsi strada nelle aule e nelle
scuole (lavagne multimediali, personal computer, tablet, ebook) quanto su come e in che
misura tutto ciò stia mutando la stessa concezione della trasmissione del sapere e della didattica.
Oggi viviamo uno scontro apparente tra tecnologie per quel che riguarda la diffusione dei
saperi esemplificato da due “oggetti” : il libro e il computer. Da un lato il “Sapere”
tradizionale, la conoscenza, la cultura, l’approfondimento, la riflessione e il “metabolismo
lento” dall’altro l’informazione, la multimedialità, l’intuizione, la velocità. Questa è almeno la dicotomia apparente che comportano i due oggetti. E’ apparente perché è uno lato che riguarda gli “adulti” e riguarda la scuola. Non altri. I ragazzi no. E nemmeno il mondo.
Siamo infatti immersi senza soluzioni di continuità nelle tecnologie digitali e senza esserne
nemmeno consapevoli le utilizziamo senza poterne più fare a meno: smartphones, pc,
internet, sarebbe impensabile oggi farne a meno. Eppure la “didattica tradizionale” si
ostina a farne a meno, come se il Sapere con la s maiuscola ne venisse intaccato.
In realtà sono i metodi ad entrare in crisi, non valori e contenuti del sapere trasmesso. I
colleghi più anziani ci mettono in guardia sui “pericoli della virtualità” e non riflettono su
una verità incontrovertibile: ogni sapere , ogni universo concettuale disciplinare è un
mondo “virtuale”. Il libro è un mondo virtuale, come lo è un tablet. Cioè quello che
contengono. I ragazzi, i cosiddetti nativi digitali questa dicotomia non la vivono e non la
riconoscono, semplicemente perché non c’è. .E allora dovremmo interrogarci sulla radice
del problema, a monte: quella che è in crisi e che deve rifondarsi è proprio la metodologia
didattica di trasmissione del sapere e se cambia il mezzo, da sempre, dall’inizio della
Storia, in qualche modo cambia anche il contenuto, non nella sua importanza, ma nella sua
aderenza al mondo. Accadde quando si passò dalla trasmissione orale a quella scritta, dal
papiro al libro manoscritto, e poi alla stampa. Ma questi che abbiamo elencato, il
manoscritto, il libro a stampa, il tablet, il pc. Sono tecnologie. E sono strumenti che nella
storia hanno rappresentato sempre dei passi ulteriori in vista di una sempre maggiore
condivisione della conoscenza e del sapere. Sono tutti ambienti di apprendimento virtuali.
Che sia chiaro. Cioè prefigurano organizzazioni del sapere disciplinare. Non è ammissibile
definire “virtuale” , nel senso di pericoloso, di poco realistico, di “irreale”, di non aderente, un contenuto digitale, e opporlo a una conoscenza appresa tramite il libro, come reale, approfondita, “vera”. Quello che può declinarsi è il modo di utilizzo e di approccio, la metodologia e gli strumenti forniti per riportare su “binari didattici” quello che oggi non
c’è: il 70% delle conoscenze di un ragazzino di 13 anni non viene dalla scuola.
Questa è la realtà.
E' bene iniziare a fare alcune considerazioni. Chi cresce oggi “maneggia” e dà forma alla
sua esperienza del mondo (tale è l’acquisizione di conoscenza) attraverso quella che è di
fatto la sua tecnologia, nonostante le resistenze dei docenti tradizionali. Tutte le tecnologie danno forma all’esperienza del mondo, comprese le ultime, anzi, a maggior ragione le ultime. Non è un male, purché l’uomo ne rimanga motore e non guardiano. Le tecnologie dunque sono forme dell’esperienza e della conoscenza.
Oggi la tecnologia imperante è il pc connesso sempre e ovunque. Insieme alla tv è
l’ambiente di apprendimento reale dei nostri ragazzi. Tranne nella scuola cioè nella sede di
acquisizione del sapere per eccellenza. Il risultato di tale esclusione della tecnologia
vincente è che la scuola non è più luogo di trasmissione della conoscenza,bensì di
imposizione della conoscenza. Non corrisponde di fatto alla forma di esperienza del mondo
come è oggi. Non credo che sia un problema di conflitto di agenzie educative, così come
capita di leggere, a chi la vogliamo raccontare? E’ solo che la scuola ha come ambiente di
apprendimento una tecnologia ormai in disuso: il libro. Ma cosa cambia nella sostanza?
Non cambia solo il mezzo, il medium, ma anche il senso e la sostanza. Il libro rappresenta
un sapere fisso, statico, di tipo gerarchico. Mentre il web reca un se un modo di
trasmissione e acquisizione della conoscenza completamente diverso: mobile, condiviso,
orizzontale e interattivo. Le gerarchie di trasmissione vengono azzerate. Non è cosa da
poco. Se dobbiamo visualizzare il concetto da un lato abbiamo una piramide del sapere con
al vertice il libro e la sua trasmissione statica da scrittore a lettore, o studente, passivo,
dall’altro abbiamo la rete, che è basata sull’azione e sull’interazione delle informazioni.
Conosce chi accresce il bagaglio, chi partecipa, non chi si pone come soggetto passivo.
Trasferite tutto questo a scuola: secondo voi come accoglie un nativo digitale la classica
lezione frontale? Semplicemente non la capisce nel modo, non è il suo linguaggio e non
rispetta i suoi tempi, che poi non sono “tempi sbagliati”, semplicemente sono i tempi
dell’oggi. Il libro è una delle tecnologie di acquisizione di conoscenza, non l’unica.
L’assurdo è che tutte le rilevazioni nazionali degli apprendimenti dei livelli cognitivi dei
ragazzi, come l’architettura del sistema scolastico, sono costruite su un modello di
acquisizione di conoscenza, fisso, che rispecchia la forma libro, fissa anch’essa.
Gli ambienti di apprendimento come le forme di acquisizione del sapere delle nuove
generazioni sono soprattutto altre, ed è bene cominciare a riconoscere che quello che noi
chiamiamo “futuro”, e chissà come ce lo immaginiamo, per i nostri figli è già adesso. Noi
adulti siamo ancora permeati di questo scontro tra tecnologie, lo stiamo vivendo sulla
nostra coscienza e sulla nostra consapevolezza , i nostri figli no. Questo scontro non lo
vivono. Se non a scuola. La scuola è oggi il luogo in cui più che mai si riflette la resistenza
tra lo scontro di tecnologie attraverso il disagio dei ragazzi. Bisogna iniziare ad adeguare le
modalità ai nuovi ambienti di apprendimento, che rispecchino le loro esperienze del
mondo, coerenti con la loro forma di pensiero. I territori che le nuove generazioni abitano
non sono più i nostri. Sono altri. Li abitiamo anche noi (nel lavoro, nello “svago”, nella
socialità) ma non li colleghiamo ancora alla trasmissione del sapere.
Ci ritroviamo dunque una scuola che cerca di trasmettere conoscenze immobili in un
mondo di conoscenze mobili. Cioè ambienti in conflitto e linguaggi in conflitto in strutture
fisiche obsolete. Immaginatevi di avere 13 anni e rendetevi conto del disagio vissuto a
quella età, non solo per la normale problematicità di quell’età, ma anche in relazione a
quanto detto. Siamo stranieri gli uni agli altri: docenti e ragazzi. E non si trasmette nulla
quando non si condividono i linguaggi. Ci ostiniamo a parlare una lingua morta e ci
stupiamo anche che non ci capiscono. Ci basiamo su un unico modello di conoscenza,
quello fisso dell’autorevolezza del Sapere con la s maiuscola,a quando bisognerebbe
acquisire la molteplicità dei modelli e di saperi con le s minuscole, perché oggi si ragiona
per interazione e integrazione. Ed è bene avere chiaro questo concetto prima di pensare
che adeguarsi ai tempi si risolva nel portare un tablet in classe o usare la lavagna
multimediale. No, significa operare una rivoluzione copernicana nella concezione “ontologica” della trasmissione del sapere. Da qualcosa di fisso e gerarchico a mutevole e
orizzontale senza “principi di autorità”.
Bisogna arrendersi alla realtà: perché è già altro questo nostro mondo. Arrendersi anche
alla supremazia sociale del virtuale digitale come promotore di dinamiche autonome: i
social network hanno sancito questo.
Tutto questo comporta e ha comportato dei paradigmi filosofici importanti, su due ordini
di riflessione: una, l’analisi della resistenza dei docenti alle nuove tecnologie , non dello
strumento in sé, ma il rifiuto di concepire nuovi spazi di realtà virtuali, cioè quelli digitali.
E l’altra il prendere atto che la conoscenza sia mobile, non immobile. E’ questo è il perno di tutto. Dove virtuale, lo ripeto, non si oppone a reale, ma propone e mette in campo una
possibilità diversa di realtà e la attua. La tecnica produce scarti con cambiamenti radicali e
inaspettati. Il virtuale, l’interazione dei saperi come si attua oggi, implica dei processi di
dubbio e di discussione, cioè di cambiamento: ogni cambiamento è un processo di
virtualizzazione, cioè si propone una possibilità diversa di realtà. Oggi con la rete siamo di
fronte al “testo bucherellato”, come ha scritto qualcuno, il testo viene interpretato e anche modificato per divenire patrimonio condiviso e aperto a ulteriori modificazioni. I soggetti non sono solo lettori, ma scrittori. E allora attenzione quando definiamo i nostri studenti “iperattivi” magari sono solo “interattivi”. E’ capace un docente di “accettare” e
“impadronirsi” di un metodo che abbia nella messa in discussione continua e nel dubbio da
risolvere il suo perno? So già la risposta: no.
Variano, insieme ai linguaggi e agli ambienti di apprendimento, i meccanismi di
comprensione ma anche di produzione che non sono più basati sull’univocità e
sulla’autorevolezza del testo (il libro) ma sulla mobilità e sulla modificazione del testo. E’
un altro tipo di logica quella messa in campo: quella della condivisione, dell’interazione e
della continua modifica. Sono concetti e riflessioni anticipate da sociologi della
conoscenza, da filosofi, da studiosi (da Perre Levy, a Roberto Maragliano) e che oggi
trovano conferma nei comportamenti e nelle dinamiche relazionali che riguardano i
ragazzi.
Ma se crolla il principio di autorità, se la conoscenza oggi procede per interazione, se
diventa un bagaglio volto a costruire più che un monolite statico una ricerca dinamica,
allora cos’è che possiamo trasmettere oggi nelle scuole? Cosa serve a questi ragazzi? Il
senso del testo? Il contenuto? Non credo. Possiamo trasmettere i percorsi, l’autonomia e
l’indipendenza di formulazione dei giudizi sul mondo. La capacità di scegliere, selezionare
e metetre in relazione nel modo più adeguato possibile a seconda del problema posto. La
cosa fondamentale è accompagnarli su tali percorsi cercando di facilitarne le condizioni di
messa in atto. Come diceva Einstein: non insegnare “qualcosa” bensì metterli nelle
condizioni migliori per organizzare l’immensa quantità di sapere a loro disposizione.
Quale scuola dunque? Si tratta di un bagaglio di base da ridefinire a seconda dei
comportamenti perché non c’è più la logica gerarchica del sapere, ma la
costruzione e l’interazione dei saperi. L’ignorante oggi è chi è escluso
dall’interazione: da quel bene comune che è la conoscenza orizzontale e
riorganizzata. Chi non è in grado di reperire e riorganizzare a seconda del bisogno una
qualunque conoscenza o informazione. Le famigerate “competenze” sono queste. Peccato
che le valutiamo nel modo sbagliato e secondo i canoni tradizionale. Siamo di fronte a una
metafisica dell’interazione a fronte di una metafisica della conservazione.
E allora la ridicolaggine filosofica , come anche di concetto, delle attuali
certificazioni internazionali o nazionali appare per intero, poiché corrisponde
a una metafisica della conservazione. Sono valutazioni che rappresentano un
adeguamento a modelli predefiniti e chiusi, quando il mondo della conoscenza oggi marcia
verso il continuo miglioramento dei modelli. Il migliore non è più chi si adegua in modo
più esatto possibile a un modello predefinito rispondendo meccanicamente a una batteria
di domande,, ma chi quel modello lo arricchisce e supera.
Abbiamo detto che la dimensione sociale del mondo contemporaneo si misura sulla rete. E
la rete si fonda sull’interazione delle conoscenze e dei saperi. Questo è il mondo adesso e
questo mondo dobbiamo riprodurre e organizzare nelle classi. Trasferendo, attraverso un
lavoro artigianale e potente, e qua si riconosce l’importanza sempre attuale del docente,
anche un’ etica della verità e una verità dell’etica implicite.
Sta a vedere come la politica, la cultura, l’economia … e dunque la proposta dei modelli
scolastici e didattici prenderanno atto di tutto ciò. La società ha ormai fatto questa scelta, i governi e la scuola..chissà.
Oggi, nelle scuole italiane, ai nostri studenti si insegna tantissimo, ma sono messi nelle
condizioni peggiori per imparare. Sia dal punto di vista concettuale, sia dal punto di vista
reale, sono circondati da sfacelo. E lo sanno, ne sono consapevoli.
E quando mi interrogano al riguardo io dico loro “Io vi guardo negli occhi e dico che
il futuro ce lo dobbiamo fare con le nostre mani. Placido Rizzotto”

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